Nel corso del convegno verrà presentato in elegante ristampa l'articolo di Don Giuseppe De Luca pubblicato su "L'Osservatore Romano" del 25 febbraio 1962 nella rubrica "Bailamme":


In anteprima: Frontespizio del testo



Don Giuseppe De Luca

 

 

Ballata alla Madonna
di Czestochowa



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Curto

Retro del testo

     La Ballata è un brano da inserire nelle antologie del nostro tempo, da far conoscere alle moderne generazioni sin dai banchi delle scuole elementari. Io che l'ho declamata cento volte, ne rimango tuttora talmente preso, da non riuscire a dominare la commozione più profonda che si coniuga con ineffabile simpatia e nostalgia.
                                                                                   Loris Francesco Capovilla

Testimonianza di mons. Loris Francesco Capovilla

Ballata alla Madonna di Czestochowa

Romana Guarnieri ricorda

La "Ballata" nei ricordi di don Marcello Pettinelli


 

Testimonianza di Loris Francesco Capovilla:

Sotto il Monte Giovanni XXIII 20 agosto 1998
San Bernardo

Agli amici di Sasso di Castalda!

   Ancora mi accompagna l’emozione di 30 anni fa, quando, pellegrino alla Madonna di Viggiano, ad inaugurarvi, nel piazzale antistante il Santuario, il monumento a Giovanni XXIII, transitai da Sasso di Castalda, che conoscevo dalle conversazioni e dagli scritti di De Luca; e sempre ne conservai memoria come se lassù avessi lasciato un brandello del mio cuore, educato come io fui a riversare la piena dei miei sentimenti, delle mie speranze, nei villaggi di montagna e di campagna, donde sicuramente provengono donne e uomini capaci di opere egregie, sovente geniali ed eroiche.

   Potete ben credere che io, fratello e amico, mi associo a voi nella celebrazione dei cento anni dalla nascita di Don Giuseppe de Luca, prete romano, scrittore, ideatore dell' "Archivio Italiano per la storia della Pietà", impresa titanica che onora la Chiesa Cattolica e l'Italia. Il nome di lui è iscritto a caratteri d’oro nel cronicon della Lucania, di Roma, dell’Italia intera, ancorché non figuri nei testi e nella toponomastica quanto meriterebbe, non solo per la testa e il cuor che egli ebbe, ma principalmente per il patrimonio culturale lasciatoci in eredità, per l’appassionato suo amore alle lettere e alle arti, per le relazioni intessute con la cultura mondiale, nell’impegno di trarci fuori dall’isolamento ed inserire l’intelligenza italiana al più alto livello dei consessi accademici.

   Per ricordare questo ecclesiastico, vissuto tra l'altare e la sua biblioteca, accessibile ai dotti e fattosi prossimo agli ultimi e ai dimenticati assieme alle Suore dei Poveri, voi pubblicate, in elegante edizione, uno dei suoi scritti più significativi: "La Ballata alla Madonna di Czestochowa", di cui io mi allieto di avergli dato "l'idea, il coraggio, la forza", com'egli stesso volle attestare.

   La Ballata è un brano da inserire nelle antologie del nostro tempo, da far conoscere alle moderne generazioni sin dai banchi delle scuole elementari. Io che l'ho declamata cento volte, ne rimango tuttora talmente preso, da non riuscire a dominare la commozione più profonda che si coniuga con ineffabile simpatia e nostalgia.

   Mettete insieme i bei nomi elencati, o lasciati immaginare, che il brano racchiude come in uno scrigno d’oro, primieramente i Genitori e Congiunti di Don Giuseppe, poi il cardinale Bonaventura Cerretti, il cardinale Stefan Wyszynski, Don Remo Riccioni, Giuseppe Sandri (una vita, questa di Sandri, che fu ininterrotta ricerca del vero e del bello, un prodigio in un certo senso, un'immolazione, un seme di speranza).

   La Ballata è molto più di una panoramica religiosa; più di un invito ad amare la Patria Lucana, la Patria Italiana, la Polonia martire, oggi libera ed attiva nel consenso delle Nazioni; è molto di più. E' una pagina di teologia mariana ed invita a venerare Maria di Nazareth con Bianco da Siena, Charles Pèguy, Hilaire Belloc, Gilbert Keith Chesterton, con Zygmunt Ktasinski e addirittura con Curzio Malaparte.

   Mi unisco alla Comunità che onora il suo Figlio più rinomato, e con essa prego nella chiesa del suo battesimo; con essa riascolto la Ballata, e benedico gli uomini e le donne, le pietre del vostro Villaggio montano, il piccolo cimitero dove riposa Raffaella Viscardi di Brienza, i vostri emigranti, lavoratori incomparabili, sovente imprenditori geniali, e mi sento ispirato a dirvi che De Luca, al di là di più minute precisazioni sulla sua genialità e la sua fragilità, è punto di riferimento sicuro, sprone ad amare Cristo, la sua Madre e la sua Chiesa, e l’umanità intera.

   Egli rimane nel tempo una consolazione per tutti: per chi crede nella cultura come strumento di liberazione e di salvezza per l’uomo, suo arricchimento e sua delizia; per i piccoli e gli indotti, ai quali appartiene di diritto il regno dei cieli, essendo ad essi promesso il dono divino della "sapienza del Cuore" (Sal 90).




L'aff.mo

 

 

Loris Francesco Capovilla
arciv. di Mesembria in Bulgaria
titolo appartenuto ad Angelo Gius.Roncalli
negli anni 1934-1953

Loris Francesco Capovilla (firma) (1345 byte)

 

"Ballata alla Madonna di Czestochowa"

   Tutte le volte, e non furono tante, che io son tornato nella casa dove nacqui (è in un paese montano, sul margine di faggete eterne che mai nessuno ha traversato, nel cuore più nascosto della Basilicata; e sì che vi si e a distanza pari, lassù, tra 1’Adriatico, lo Ionio, il Tirreno, e io fanciullo coi pastori spiavo se, di tra una radura e 1’altra della sommità più alta, si vedessero in lontananza scintillare insieme le tre marine); tutte le volte che sono tornato a casa, dicevo, giungendovi da Salerno per il Vallo di Diano, non appena oltrepassato il crinale che il Vallo separa dalla vallata del Pergola, d’un subito scoprivo, li sulla costa di fronte, il mio paese nel so le, e poco più giù sulla destra il camposanto, dove dorme colei che, dando in cambio la vita sua per la mia mi fece uomo; e accanto ad essa, dorme il prete che fece me prete.

   Voi direte: il Pergola, peuh! gran fiume che è! e poi anche la valle di cotanto fiume, e poi... Adagio, lettore. Da quei monti dietro il mio paese, da quelle faggete, scende il Melandro; il Melandro per una matassa lenta di andirivieni va a riversarsi nel Pergola, il Pergola nel Tanagro; e così, dolce dolce, una valle appresso all’altra, ora costeggiando l’uno ora l’altro paese, antiquos subterlabentia muros, quei magri fiumi a Pesto, dove l’acqua del mare serba ancora una sua certa luce: poco più su insomma dell’antica Elea, dove nacque un giorno la metafisica, come sullo Ionio a Metaponto, ora coltivata ma sempre solitaria, nacque un giorno la filosofia religiosa. Lettor mio, vuoi proprio levarti la voglia e il gusto di darci di "area depressa"? Padrone. Io pure, rintronato sin da fanciullo tra nomi come Melandro, Tanagro, Sele, Palinuro, Elea, Metaponto, anche io mi sento quando perplesso e quando depresso. Non forse in quel senso che dici tu, ma è un fatto, sento che mi opprime, quasi un peso troppo grande, il peso di tre millenni continuati nella luce della civiltà; E se non ti dispiace, mi sento turbare tutte le volte da quelle terre, quei cieli, quei boschi, quelle acque, quei luoghi senza gloria, così poveri e antichi. Tutte le volte. Te ne accorgerai tu pure, un giorno non lontano. Di questi giorni l’amico Barelli mi ha mandato il volume da lui curato; e di questi giorni, ahimè, è morto Luigi Pareti, il discepolo maggiore di Gaetano De Sanctis; è morto, ma aveva terminato appena per me una storia incomparabile e severa della Lucania antica. Gliela pubblicherò, con l’aiuto di Dio e di chi mi vuol bene, la pubblicherò, e vedrai, vedrai, lettore.

   Torno, dicevo dunque, a casa; supero il crinale, e vedo apparire nitide e lontane le mura "povere e vetuste" del mio paese; di meno di mille abitanti; le veggo, e regolarmenti gli occhi mi si inumidiscono. Piangere, no, troppo sarebbe; ma lagrimare, sì, e tutte le volte. Ebbene, dove e quando non meno regolarmente mi succede la stessa cosa, e quando scendo su Orvieto, venendovi da Montefiascone. Non appena e all’improvviso mi si para para innanzi la cattedrale, ferma li nel mezzo della vasta valle come una antica nave; non appena poco poco lì sotto la rotabile tra le viti e gli alberi s’intravede la bella chiesa del camposanto di Orvieto, riecco le lagrime. Riposa lì nel sonno della morte un prete d’Orvieto, il quale, in combutta con un altro amico, ma questo vivo vivissimo, quantunque lontano lontano lontano, nato anche lui in quei pressi, han fatto sì che Orvieto diventasse, a me terrone, una città natale d’elezione: una patria di desiderio e di ambizione, di malinconia e di sogno.

   Ora che la sorella drl card. Cerretti, la buona signorina Elvira, e morta; ora che la sorella di quel prete morto anch’essa e rimasta sola e nel lutto; e l’altro amico, quello vivo, arrabbiatamente vivo (me ne appello, ché lo conoscono, a Sua Em.za il card. Testa, a Manzù, a Bugiani), e sempre più lontano lontano lontano, ora io credo che lo posso dire alla fine, e senza veruna indiscrezione; non ti pare, Lazzarini? Ebbene, io, per amor di Orvieto, io nemico giurato di scriver libri, scrissi un libro, un libro mastodontico: la vita del card. Cerretti. Il senatore Croce, il quale mi onorava delle sue più impietose celie, in occasione che gli facevo firmare certo contratto per una riedizione nella mia serie della sua Bibliografia del De Sanctis, mi chiese maliziosamente se, alla Madonna (me ne sapeva sfacciatamente devoto), non avevo proposto di scriver nulla. "Pur di non scrivere tu, faresti scrivere non si sa a chi". Come se avesse voluto affettuosamente dire: Quanto sei fastidioso, prete mio!

   Orbene, quel prete rnorto che riposa a Orvieto, a mezza costa di contro alla città, amò la Madonna d’un amore pazzo. Le voleva un bene, un bene! e non era, mi potete credere, no era un dolce di sale: poche altre intelligenze incontrai, così folgorate. E io nulla tanto ho cercato, dopo le anime, quanto le intelligenze; un poco, le ho in pratica. Ed era d’una bontà, d’una bontà! Don Remo… Così si chiamava quel mio amico prete, amico mio e di tanti (quanti, a leggerne oggi qua sopra il nome, sentiranno velarsi gli occhi di lagrime insieme con me), Don Remo era essenzialmente un amico di Dio, ma non portava sul capo aureole. Rideva, rideva, rideva sempre, e intanto serviva tutti, in tutto, dappertutto. Nessuno mai se ne avvedeva, pareva persino che non se ne avvedesse nemmeno lui. Rideva, ma serviva; e morì anche a codesto modo, ridendo e servendo. Morì come per uno dei suoi scherzi. La morte più volte gli aveva teso, per via, in casa degli amici, dovunque, i suoi agguati feroci. Ed egli alla fine morì. Ma non se ne è andato.

   Ve ne dò una prova. Con l’altro amico, quello che ora è così lontano lontano lontano, si traversava un giorno l’altipiano tra Orvieto e Todi (dico: Todi, la Todi di Jacopone); e cantavamo, io come posso, lui come non si potrebbe meglio, perché bellissimo uomo e con una bella voce, cantavamo a uso di stornello Bianco da Siena:

In su quell’alto monte
è la fontana che trabocch’ella.
D’oro si ha le sponde
et è d’argento la sua cannella.
Anima siziente,
se tu vuoi bere, vàtten’ ad ella.
Non ti bisogna argento,
o ver moneta per comprar ella.
Qualunque ne vuol bere,
convien che spogli la sua gonnella.

   Quando si giungeva sulle famose parole "convien che spogli la sua gonnella", non ce lo confessavamo, anzi facevamo ancora di più gli spavaldi, ma la voce tremava a tutti e due. Pareva che ci fosse, tra le voci nostre, quella di don Remo. Lui, la sua gonnella l’aveva spogliata, pur di bere alla fonte, quella fonte che è poi la fonte della contemplazione. Povero e indifeso come un uccello d’inverno, pareva, soltanto a guardarlo, pareva un angelo.

   Caro don Remo, tu non ci lasciare. Lo vedi, noi non ti abbiamo lasciato. Oggi prendo proprio da te l’avvio per la Madonna che voglio a ogni modo ricordare: la Madonna di Czestochowa. Me la facesti conoscere tu, tu me la facestii amare; tu che per testamento dovevi lasciare che, una volta che ti avessero calato nlla cassa da morto, prima di chiuderla, vi spargessero dentro, sopra la tua persona, tutte le innumerevoli immaginette della Madonna, che nella vita avevi raccolte. Eran tante, e tutte le volesti portare: le immagini, le tentate immagini di Colei che, donna, diede a noi come suo figlio e nostro fratello Colui che non ti riusciva mai di nominare a nome, così, di sfuggita; dico, il Figlio di Maria. A nominarlo soltanto, il cuore ti tremava, il mondo intorno intorno ti pareva un altro. L’altro mondo, veramente, a solo nominarlo.

   Don Remo mi fece conoscere lui, o mi pare certo che fosse lui il primo (tanti di quegli anni fa, quando mons. Ratti andava nunzio in Polonia) la "Vergine nera" di Czestochowa. Ne diventai devoto. E con don Remo, quante volte non parlavamo per le vie di Roma di quella febbre intermittente, che dà all’Europa di tanto in tanto i brividi, la febbre della Polonia! Febbre d’amore, sempre; spesso, febbre di morte. Dagli anni di Chopin e di Lamennais agli anni della penultima guerra, un passione degli uomini ha nome Polonia.

   Non appena ho letto che giungeva in Roma in questi giorni il Cardinal Primate di Polonia, mi sion tornati in mente quei giorni, quegli uomini, e tutte le avemarie (quante, Madonna mio, quante: ce ne ubriacavamo) che si recitavano spesso insieme alla Madonna di Czestochowa. E mi son tornati in mente inoltre (oh che brutta malattia è la letteratura) uno scrittore e la ballata che egli scrisse e dedicò alla Madonna di Czestochowa.

   Che dico dedicò? Belloc, perché sii tratta di lui, si recò in persono nel 1928 in Polonia. Non fu un viaggio, il suo; e lui n aveva fatti tanti, di viaggi, tutti descritti in divertentissimi libri. Fu un pellegrinaggio vero e proprio, come quelli di Pèguy a Chartres. Pèguy pativa, e portava le sue poesie come un ex-voto per i figli malati alla Madonna; Belloc portò una sua ballata,un po’ alla brava, spavaldamente. Era una ballata all’antica. Era venuto qui, nella città eterna, a piedi, dal cuore della Francia; e il suo In via per Roma (The Path to Rome), lo diedi tradotto nell’Illistrazione Vaticana del 1935. Non io dovevo tradurlo, avrebbe dovuto tradurlo uno come Cecchi, a quel modo che tradusse Manalive di Chesterton: amico dell’uno e dell’altro, e amico degnissimo di loro, a loro egli ha consacrato pagine parecchio belle.

Narra il biografo del Belloc:

[Nel 1928] Belloc si recò in pellegrinaggio in Polonia; questo pellegrinaggio, per importanza, vien secondo a quello che aveva fatto a Roma. Sua mèta, il santuario della Madonna di Czestochowa; recava con sé la ballata che porta ilnome di Lei.
   Ascoltata la messa nella grande chiesa del monastero, la quale domina tutta la regione per la sua situazione, e domina tutta la Polonia per la sua leggenda, Belloc portò la ballata, montata in un cornice nera, nella cappella dove la fascia dolorosa della Madre di Dio guarda sulla folla che le prega davanti. L’appende alla parete a fianco dell’altare, a destra, in mezzo a spade, medaglie, vascelli d’oro, braccia e gambe, testimonianze della intercessione della Madonna. Dopo, ne fece una traduzione strana in un latino maccheronico, e la depositò negli archivi del monastero. Se oggi un pellegrino polacco guarda un po’ da vicino queste sante mura, vedrà che un poeta inglese fu il primo tra gli amici della sua nazione.

Qual è questa ballata? Eccola, nella traduzione di Augusto Guidi:

Donna, e Regina, e multiplo Mistero,
E Reggitrice dello sgombro cielo,
Madonna che Sant’Ilda vide in sogno,
E una silvestre musica ascoltava;
M’attenderai nell’ora vespertina,
Che le nubi sono alte e rientra il gregge.

Questa è la fede che ho nutrito e nutro,
E questa è quella in cui morire voglio.

Scoscesi sono i flutti, irosi, freddi,
Terribili a tentarsi nei marosi;
Vasta è la steppa nella fredda notte,
Né vi trova una vela alcun riparo.
Ma tu mi guiderai alle luci ed io
T’innegerò in un porto favoloso.

Questa è la fede che ho nutrito e nutro,
E questa è quella in cui morire voglio.

Dei soccombenti ausilio, Casa d’oro,
Eburnea torre, Tempio della Spada;
Raro splendore, raggiante, supremo,
Visione dell’eroe, voce del mondo.
Tu mi restituirai, fedele amica,
Alla vendetta e alle glorie dei forti.

Questa è la fede che ho nutrito e nutro,
E questa è quella in cui morire voglio.

Licenza. Principe d’onta che ti compri e vendi,
Scritti nella tua tana rovinante,
Questi versi proclaman la mia fede,
Proclamano che in lei voglio morire.

   Oh no, non è una gran poesia, forse nemmeno è una poesia. Sarà preghiera? Ne dubito, la pregihiera e la poesia essendo cose estremamente più sfuggenti, segrete. A Belloc, più di una volta, come al suo amico Chesterton, piacevano troppo scrivendo i fuochi artificiali. Come piaceva il vino. Si sarebbero vergognati di dare per soggetto alla poesia, persino alla prosa, la cronaca nera oggi d’uso alla quale preferirono sempre le storielle allegre. Incontrarono, tuttavia, la preghiera e la grazia, tutti e due, e più di una volta.A loro stessa insaputa, ma le incontrarono; e un giorno qualcuno lo dirà, io spero.

   Non è strano, lettore, che questo innamorato di Roma, il suo secondo pellegrinaggio lo abbia fatto proprio alla Madonna di Czestochowa, e a quella Madonna abbia recaro la sua ballata?

    — Piuttosto, sento che mormora il lettore, piuttosto le par prorpio molto ma molto intelligente questo andar appresso alle diverse Madonne? Già voi cattolici ne avete patite diverse, con la Madonna; cristianità intere ve ne tengono rigore. Si vede che non imparate nulla, come i pazzerelli; e ancora andate appresso non solo alla Madonna, ma alle Madonne: alla Madonna di qua, alla Madonna di là…

   Lettore intelligentissimo, permetti? se tu nell’obbiezione insisti, se non la ritiri quanto prima, e io farò finta di non averti sentito, non è più in questione l’intelligenza mia, maggiore o minore o punta, ma la tua, unicamente la tua. Di una persona amata, una madre, una sposa, un amico, un figlio, tu non serbi una ma serbi tutte l immagini che puoi, e ti son care quanto la persona che ami. Se io nel caso ti venissi a dire che tu sei, per così poco, non so, un primitivo, un selvaggio, un sottosviluppato, ne lascio giudicare a te e al tuo amico più parziale, chi sarebbe in torto, tu o io?

   La Madonna non c’è più, tra noi. Almeno sacramentalmente, Gesù ha voluto restare. La Madonna no, non c’è più. Tanto poco ne abbiamo molte, come tu dici, sulla terra, che non ne abbiamo nessuna. Essa è col suo Figliuolo, nel regno indicibile e inimmaginabile del Padre. Di lì può ascoltarci, può esaudirci, può correrci vicino col suo soccorso, ma qui non c’è più. Non la incontreremo mai, nemmeno velata. San Giovanni della Croce, quando gli portarono il viatico, levati gli occhi sull’Ostia consacrata, ruppe in un pianto dirotto e mormorò: Non ti vedrò più nel Sacramento! Si era affezionato al grande e dolcissimo mistero, gli doleva lasciarlo anche avviandosi alla verità svelata. La Madonna, noi non la incontreremo mai, sotto nessun velo, e io avrei voluto tanto guardar negli occhi Bernadette, per coglierne un riflesso.

   Qui non ci sono di lei che delle immagini, povere immagini, tutte non autentiche. Non c’è altro. Dalle più alte leggende alle fantasie più squinternate; dalle raffigurazioni rupestri di rozzi romiti e d’innamorati randagi, nessuna donna, nessuna, è stata talmente "immaginata". Ma per chi dunque mi prendi lettore? Per chi ci prendi? Rifletti quant’è sconveniente (non dico altro, sconveniente) pensare che noi, di fronte a codeste immagini, saremmo tutti persuasi persuasissimi che sono altrettanti idoli, qualcosa di magico, di mistico, di taumaturgico. Tu parli ancora, e non te ne accorgi, del cristianesimo e dei cristiani come d’una area depressa, intellettualmente. Eppure, della Madonna è stato detto quel che non fu detto d’alcuna, come Dante si propose di voler fare di Beatrice e fece anche meglio della Madonna: basterebbe il XXIII canto del Paradiso.

   E poi e poi, dottissimo lettore, non soltanto uno scrittore notoriamente cattolico e inglese, ma uno scrittore italiano e non cristiano, alla Madonna di Czestochowa dedicò anni addietro, in un romanzo che alla Madonna di certo no poteva porgere in dono, pagine e parole piuttosto affettuose. Non era uno scrittore dei primi, ma nemmeno fu degli ultimi. Mentre cedette a ogni tentazione, le migliori e le peggiori, a una resistette sempre, che pure per lui, lui italiano, anzi toscano, e non soltanto italiano e toscano, restò sempre presente e forte: la tentazione della preghiera, la tentazione del Signore. Direi persino della Madonna, e penso alla novella "Il giardino perduto", bella quanto una poesia, che si legge nella raccolta Fughe in prigione. E non è per la Madonna di Czestochowa questo brano?

A un tratto, un profondo rullo di tamburi fece tremare le mura del sotterraneo, e al suono delle trombe d’argento, che squillavano le note trionfali del Palestrina, la saracinesca si sollevò a poco a poco, e tutta fiorita di perle e di pietre preziose, sfavillanti nella luce rossa delle candele, apparve la Madonna Nera col Bambino in braccio. Prostrati con la faccia in terra, i contadini piangevano. Udivo i singhiozzi repressi, il batter delle fonti sul pavimento di marmo. Chiamavo la Madonna, per nome, a voce bassa, "Maria, Maria", come se chiamassero una persona di famiglia, la mamma, la sorella, la figlia, la moglie.

   Accade con la Madonna come con la Croce. La si trova dove meno si pensa, e mai non fa compagnia e coraggio all’uomo. Al tempo delle spartizioni feroci della Polonia, nel 1772, nel 1793, e nel 1795, i polacchi perdettero l’indipendenza. Nel 1830-1831 tentarono riacquistarla, ma fu invano. La Russia degli Czar, la Germania, l’Austria, la mantennero smembrata sino alla guerra penultima. L’ultima guerra poi è scoppiata proprio lì, in Polonia. Quando ci si incontra in un passo come questo del conte Zygmunt Krasinski (1812-1859), anche a non volerlo, si diventa lì per lì pensosi. Durante una visita a Roma, nel 1830, egli, autore di Iridion, il dramma che mette in azione la lotta tra Grecia e Roma, scriveva al padre:

Questa croce (piantata in mezzo al colosseo) la medesima di mille anni addietro, veniva calpestata proprio qui in questi luoghi stessi; per questa croce giovani cristiane le si gettava in pasto ai leoni e tigri… Quesi giorni il Colosseo si ergeva possente e imponente; dentro vi si assideva beata la gente che aveva il maggior potere sulla terra… Ora se ne stà andando in rovina, e cade - la croce però non sembra che cambi. È di legno, come allora; s’alza tutt’ora solida nel bel bezzo della costruzione; si alza sul suolo dove la si perseguitò, e domina dove fu disprezzata.

   Così il vecchio Conte. Se non che ben poco ci si può filosofare, su consimili vicende. Caddero, è vero le mura di Roma antica, e il Palatino è tutto una rovina; ma del patriarchìo, della casa dei papi nel primo millennio, ci resta forse molto di più? Anche il nostro corpo, tanto più nobile delle nostre case più belle, cade. Noi, quaggiù, siamo ospiti d’un giorno solo; e per un cristiano la storia non è più che un prologo in campagna. La si ha da vivere con tutti i sentimenti, a occhi aperti, in un impegno estremo: sino all’ultimo sangue, se occorre. Ma è appena l’orto di casa, la terra, è il giardino; la casa è altrove, nell’eterno. Giardino terrestre, questa terra; e poi lungo di tutte le viltà, di tutti gli eroismi. Sulla storia non ci si può dunque tanto filosofare. Tante glorie ci servono a poco. Abbiamo bisogno, diceva san Paolo, d’una gloria sola: la Gloria di Dio. Peccaverunt, et egent gloria Dei.

   A proposito: quello scrittore italiano e non cristiano, Curzio Malaperte, aveva sangue straniero nelle vene: era fuor di pseudonimo, un Suckert. Un filo di sangue straniero corre nelle vene di quel mio amico lontano lontano lontano. Com’è una, questa Europa, che si dà per tanto disunita e dispersa! E chissà che nella lauda stessa di Bianco da Siena non echeggi un motivo della pietà germanica? Molti studenti tedeschi erano, allora, allo studio di Siena; ora sta di fatto che, quando Bianco da Siena nella citata lauda dice alla Madonna "O virgo gloriosa / che del buon vino tu sei la cella", mi vien ora in mente che in un vecchio canto tedesco alla Madonna si dice la stessa e medesima cosa. Darò altrove tradotto questo vecchio canto tedesco, ma è così. La "sobria ebrietas" della preghiera profonda, la custodisce Maria, la Sposa dello Spirito. "El buon vino", spiega Bianco stesso i propri versi, "si è il dolcissimo amor di Cristo".

   Se avessimo tanto ardire, noi al Cardinale di Varsavia oggi vorremmo rivolgerci così: "Questo buon vino, Eminenza, non manchi mai sulla mensa sua e del suo popolo: tanto le chiediamo anche noi, alla Madonna sua e del suo popolo. Il dolcissimo amore di Cristo". 

 


Romana Guarnieri Ricorda

La "Ballata" nei ricordi di don Marcello Pettinelli

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